“Mi
scusi, mi sa dire l'ultima partenza della notte?”
“Varrebbe
a essere?”
“A
che ora parte l'ultimo traghetto?”
“Per
dove?”
“In
genere”
“L'ultimo
è alle 19e30, direzione...”
“Grazie”
E
anche il mio piccolissimo sogno residenziale si infrange così, su un
muro di risposte tecniche e svogliate. L'ultimo traghetto parte alle
19e30, quando c'è ancora il sole.
Non
c'è nulla che io ami di più dei porti e delle stazioni di notte;
ancor di più quelle partenze sconosciute e con biglietto sola andata
in orari dominati dalle tenebre.
Guardare
una nave partire di notte -ancor di più salirci- è una delle poche
visioni che mi comunica un senso di pace, è un accordo improvviso
tra l'anima, il corpo, gli occhi e il flusso esterno della vita.
E
quindi sono deluso dal fatto che qui, proprio dove vivo, di notte non
si muova sul mare proprio nulla, se non piccoli pescherecci e chiatte
commerciali.
Niente
azzera tanto fortunosamente la mia anima più di un porto battuto dal
vento nella sera avanzata, con pochi sconosciuti che inseguono il
loro tempo, i loro eventi, passandomi accanto e mischiando all'aria
che respiro qualcosa della loro fretta estranea, profumi brevi
muschiati da passioni solo supponibili, da urgenze che in qualche
modo finiscono per somigliarsi tutte.
L'amore,
l'inseguimento, la ricerca, il consolidamento, l'esilio, la frenata
prima del vuoto spento, l'arte di riaccendere i precipizi per la
prossima festa.
Invece
no, qui di notte non parte niente.
Qui
puoi solo osservare l'acqua e le imbarcazioni ferme, lavorare di
immaginazione, esagerare con uno stato mentale di alterazione
sensoriale che non è mai compresa davvero in un semplice titolo di
viaggio.
Se
oggi mi capitasse di incontrare per caso qui mio padre, riconoscerlo
tra la folla che si imbarca, penso che gli direi solo “ma tu lo sai
che ho cercato di partire tutta la vita? E che nel partire, nella
sola idea, non prevedevo mai di tornare?”
Lo
direi a lui come ora lo dico, scrivendolo, alla carta virtuale che ho
davanti, questo schermo bianco con dei margini, che qualche volta mi
riflette, male e deformato, con gli occhi troppo lontani e il fumo
della sigaretta che somiglia più a un copricapo che a un fantasma in
movimento.
Di
fronte a troppe navi, a troppi ricordi, a questo sole crudele e
democratico, qualcosa di doloroso che mi porto dentro chiede la notte
senza scocciare più di tanto, come un animale domestico che ti si
stiracchia ai piedi per comunicarti i suoi primi languori.
Un
dolore non deciso, ondivago e quasi sognante, un ticchettio.
Un
sussurro che somiglia al mio nome e alla smania di vivere che quel
nome, il mio, continua a subire con arresa indulgenza.
Tutte
queste valigie, questi trolley, le cosce, i culi, i pantaloncini dei
turisti, gli smartphone, i tablet, le voci volgari, il francese misto
al tedesco, al napoletano, al dialetto puteolano, al mio silenzio.
Senza che io possa sentirmi bello come capita di notte. E questo è
molto grave.
Tutto
questo, e molto altro, passa accanto al mio dolore controllato,
fisso, basico, questa specie di scavo artigianale e atavico che
perpetro senza l'ego in festa. Mai più l'ego in festa. Non mi
permetterò mai più l'oscenità dell'auto da fé. Non faceva per me,
non lo volevo capire, sondavo, tentavo.
Controllo
il mio dolore controllato tutte le volte che posso.
E
adesso?
Ora
che faccio?
Tutto
finisce alle 19e30. Io no. Io comincio, invece. In quella meridiana,
in quel cono d'ombra e doppiezze non riflettute. I miei giorni sono
quelli del pittore che ha sbagliato duemila volte lo stesso quadro,
fino a poter comprendere che sbagliava pennello e colori, perché
usava i suoi occhi e le sue mani. Non gli odori, non le partenze. Non
avevo capito niente e forse, dico forse, il dolore non lo controllavo
come adesso.
Adesso
me ne torno a casa. L'impiegato dell'ufficio marittimo è stato
scortese e laconico, io ero assente quando lo guardavo, mi serviva
solo un'informazione.
Quando
mi serve qualcosa, sono sempre assente. Al fondo di me e delle cose.
Quando
voglio qualcosa sono presente e pronto a morire. Come gli eroi
romantici che amo disconoscere per non prestarmi a interpretazioni.
Tutto
ciò che di notte si allontana mi regala pace, l'inizio da una fine,
l'inguaribile e meravigliosa malinconia dell'essere ancora vivo,
dentro e nei passi indecisi che compio tra le instabili geografie che
mi hanno deciso.
È
solo questione di controllare il dolore già controllato.
©Luca
De Pasquale 2017
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